“Kutsa!” un amore che segna

“Nulla è più pratico,
per trovare Dio,
che innamorarsi
in modo quasi definitivo,
assoluto”
Pedro Arrupe
sj

“Kutsa!” Un grido di gioia scappa tra i denti che stringono con forza il suo ciuccio. Gli occhi di Nelly sono spalancati davanti a me. Qualche ciuffo di capelli neri le rimbalza ancora sugli occhi e sul naso, per la corsa che ha fatto venendomi incontro.

Immobile, rimane a guardarmi con un sorriso spassionato.

“Nelly! Hai detto Kutsa! Hai imparato il nostro nome!”

Per un attimo il tempo si ferma e io con lui. Accarezzo lo spessore della vita trascorsa e ne assaporo il profumo che mi attraversa. Ricordo bene la prima volta che ho visto Nelly, durante una festa di compleanno al campo. Era la più piccola delle sue sorelle. Oggi ha un fratellino di nove mesi. Da quando ci ha conosciuto, la sua visita quasi quotidiana non è mai mancata. Il suo senso di orientamento e il suo spirito “esplorativo” la portava, come tanti altri, a raggiungere la nostra baracchina e a regalarci le sue risate. Capitava che dal tanto ridere il ciuccio le scivolasse di bocca e iniziasse a ciondolare come una perla intorno al suo collo. E lei prontamente lo rimetteva “al suo posto”.

Quanto era cresciuta.

Quella sera per la prima volta mi aveva chiamato per nome. “Kutsa” la sua versione di “maikutsa”, il nome con cui ci chiamano i nostri vicini al campo e che corrisponde all’italiano “sorella”.

Come misurare la vita racchiusa nella voce di una bambina che impara a pronunciare il tuo nome?

Questa parola appena comprensibile ha in sé tutta la sovrabbondanza di questo anno e mezzo trascorso in un fazzoletto di terra di periferia.

È il semplice frutto di un quotidiano fatto di poche briciole, che insieme, una dopo l’altra ,diventano casa, luogo accogliente in cui abitare.

Dal nostro angolo dedicato alla preghiera comune si può vedere la cannella dell’acqua e accompagnare così il riempirsi delle grandi taniche benedicendo il nuovo giorno.

Quando la nostra preghiera finisce c’è chi già è partito a scuola, chi aspetta ancora il bus, tanti già sono usciti per andare a lavoro.

Se parto in fretta con la bici li incontro sul ponte, ci salutiamo con un gesto, un sorriso, una parola: è un nuovo giorno che comincia. C’è chi esce come me, chi ha davanti a sé un’anziana signora che l’aspetta, chi semplicemente spera di ritrovare il suo angolo di marciapiede “il suo posto” faticosamente guadagnato e dove semplicemente aspetta… e chi è già di ritorno con il carrello o la bici carica dei nostri scarti. Per chi rimane a casa il lavoro non manca: la baracca da pulire, i panni e i tappeti da lavare, i piccolini da guardare e la cucina da fare…

È dietro al velo di questo quotidiano che piano piano si svelano vite, storie, cammini, desideri, ferite e gioie che semplicemente diventano parte di me.

In questo angolo di terra “già confinato” nascosto dietro alla rampa di accesso della tangenziale raggiungibile dalla città solo con una strada a tre corsie senza marciapiede… il privilegio è stato che non ci è stato “permesso” nessun ulteriore distanziamento.

Nel suo inevitabile rischio questa povertà ci ha regalato il paradosso di vivere una normalità che è ormai diventata un privilegio.

Devo tanto ai nostri vicini che mi hanno accolto e fatto spazio, che mi hanno permesso di scoprire un’altra prospettiva con cui guardare la realtà, che semplicemente mi hanno mostrato quale amore ci può essere tra persone di cultura così diversa.

Ed è guardando a loro un po’ come modello (…è anche così che l’amore lascia il suo segno) che vorrei vivere la mia partenza: senza voltarmi indietro. Non è un addio ma un semplice spostarsi, perché se camminiamo, lungo la strada ci rincontreremo ancora.

…é portando nel cuore questo desiderio e tanta gratitudine che a luglio ho lasciato la nostra fraternità che vive in un campo Rom, per continuare il mio cammino di formazione di professa temporanea a Roma.

Ps Sofia Miriam

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