Il segreto di Betlemme

Mio padre era un insegnante. Oggi è malato di Alzheimer, indifeso e dipendente come un bambino.

Non capisce più il mondo e le sue connessioni. Se le parole si svuotano di significato il suono e la melodia della voce risuonano ancora. Il contatto personale, così limitato e rischioso in questo tempo di pandemia, riesce ancora a fargli percepire l’affetto. Mio padre vive in una casa di cura. Chissà se si accorge che a causa delle restrizioni, sua moglie non va più a trovarlo? Chissà se ha qualche vaga idea della nostalgia che prova, del suo dolore, delle sue preoccupazioni? Una delle infermiere che lo ha in cura è una sua ex alunna. Al telefono dice a mia madre: “In passato era una persona che rispettavo e quasi temevo. Oggi, nella sua desolazione, non ho null’altro da fare che volergli bene!”.

A Betlemme, Dio si fa uomo. Si è affidato alle nostre mani, dipendente e indifeso. Come se volesse toglierci la paura di un Dio severo e punitivo. Lui, Dio, desidera tenerezza e amore! Ha nostalgia di noi umani nei nostri smarrimenti e nelle nostre paure. 

Quando il dolore per la sofferenza dei miei genitori minaccia di travolgermi, percepisco allora quanto esso trovi spazio nel mistero di Betlemme. In ogni esistenza umana, infatti, il presepe e la croce, la nascita e la morte si intrecciano intimamente.  Questa consapevolezza non priva il dolore della sua intensità permette però che esso si impasti, si incorpori nella convinzione che Dio, nella sua incarnazione, regala una speciale dignità ai deboli: dipendenti e indifesi.

Ps Ulrike-Dorothea

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